Maurizio Grandi e Erica Poli
Un tempo c’era il Mal d’Africa.
Più poetico, esotico, fascinoso.
Oggi anche l’Africa è sotto l’offensiva Covid 19, in barba alla termolabilità del virus, ma naturalmente non si dice.
Come non si dice che, oltre al Covid, ci sono anche le cavallette, nuova piaga faraonica, figlia dello squilibrio dell’ecosistema.
Non è Jahvè stavolta a mandare piaghe e diluvio, ma Madre Natura, dal maschile al femminile, in un video che fa il giro del web e getta una luce apocalittica sull’epidemia.
Al posto dei profeti biblici, gli epidemiologi che, peraltro da tempo, avevano predetto che procedendo con questi ritmi e modalità di globalizzazione saremmo andati incontro a focolai ripetuti di epidemie potenzialmente pandemiche.
Del resto i primi lavori sulla grande famiglia dei Coronavirus risalgono agli anni ’80 del secolo scorso, e, interessante notarlo, molti sono a firma di gruppi di ricerca cinese.
Altra considerazione a margine: al di là dello scandalo dei pandemic bonds, il punto è che da anni le compagnie assicurative di mezzo mondo prevedevano che ci saremmo arrivati.
E come mai?
Male di Metropoli, nuova diagnosi, da rubricare nei manuali.
Andiamo con ordine: il Covid vive endemico in pipistrelli o serpenti, da sempre manicaretti per pochi fortunati di piccole comunità. La stessa storia del kuru per le tribù dove Creutzfeldt Jakob individuò i prioni, resi noti poi all’opinione pubblica con il simpatico nome di morbo della mucca pazza, grazie appunto alla globalizzazione, di cui la Dott.ssa Poli ebbe il piacere di curare in reparto psichiatrico il caso 1 italiano.
I pipistrelli o chi per essi non vengono più macellati in qualche radura sperduta, ma su un banco del mercato affollato.
E la diffusione è servita.
Una mutazione favorita dall’altissimo inquinamento della metropoli cinese ed ecco il passaggio di ospite.
Viaggi intercontinentali, superficialità iniziale alle frontiere e il giro del mondo per il virus è pronto, naturalmente senza bisogno di fare il plan in agenzia e pagare il biglietto.
Scherzi a parte, ma l’ironia è pur sempre una buona arma per guardare uno spettacolo di scempio senza esserne sopraffatti, ci sono alcuni punti relativi alla diffusione di Covid 19 sui quali si possono fare ragionevoli considerazioni.
1. Inquinamento ed epidemia
Oltre ai rischi della globalizzazione in termini di diffusione e contagio, di cui sopra, l’altro ambito di cui si è parlato poco finora, ma che invece è profondamente significativo, riguarda la relazione tra inquinamento ambientale ed epidemia.
Anche se le Istituzioni come Arpa Lombardia, vanno caute nel trarre conclusioni, è innegabile che in Cina il blocco totale abbia abbattutto le emissioni inquinanti, legate ad attività industriali e traffico, e in concomitanza a questo, i tassi di contagio siano scesi.
È altrettanto innegabile, confermato dai dati dell’agenzia spaziale europea ESA Copernicus, che in Lomabardia, in termini di emissioni di CO2, stia accadendo la stessa cosa.
Un po’ di antefatti, tratti da un articolo di Anna Gerometta, presidente dell’Associazione Cittadini per l’Aria:
“Per oltre due mesi, dall’inizio di dicembre alla prima settimana di febbraio 2020, le concentrazioni di particolato, PM10 e PM2.5, e NO2, biossido di azoto, in Lombardia sono state pressoché costantemente ben oltre i limiti di legge. Dopo un dicembre irrespirabile, a metà febbraio erano già stati consumati in Lombardia i 35 giorni annui di superamento del limite dei 50 µg/m3 concessi dalle norme europee per il PM10.”
E ancora:
“Nel 2013 un gruppo di ricercatori cinesi ha provato ad analizzare la porzione di particolato atmosferico consistente nei microorganismi inalabili, per intenderci batteri, virus e funghi (Inhalable Microorganisms in Beijing’s PM2.5 and PM10 Pollutants during a Severe Smog Event, Cao et al. Environ. Sci. Technol. 2014, 48, 3, 1499-1507,).
La loro ricerca, ha mostrato che al crescere delle concentrazioni di particolato si verificava un incremento dei microrganismi nell’aria. Ovvero più erano elevate le concentrazioni di inquinanti nell’aria maggiori erano le quantità di microrganismi patogeni nell’aria di Pechino. Se la conclusione dello studio cinese fosse confermata, si potrebbe supporre che, giunto in Italia a cavallo fra il 2019 e il 2020, il virus abbia trovato in Lombardia terreno, anzi aria, assai fertile per la sua diffusione.”
Si aggiunga a questo l’ovvio legame tra inquinamento, infiammazione cronica e vulnerabilità polmonare, con insorgenza di patologie respiratorie ed evidente maggiore suscettibilità al contagio e allo sviluppo di complicanze.
(Fra i più recenti Griegg “Air Pollution and Respiratory Infection: An Emerging and Troubling Association” solleva il tema nel 2018 facendo riferimento a uno studio sui bambini e il virus sinciziale https://www.atsjournals.org/doi/full/10.1164/rccm.201804-0614ED; uno studio recente sui ricoveri da influenza a New York “Associations between Source-Specific Particulate Matter and Respiratory Infections in New York State Adults” Environmental Science & Technology 2020 54 (2), 975-984
https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.est.9b04295 ; ed infine un recente studio che evidenzia l’alterazione del sistema immunitario “Air pollution and its effects on the immune system” del 30.1.2020, Drew A. Glencross et al. https://doi.org/10.1016/j.freeradbiomed.2020.01.179)
Ancora dati, utili per comprendere la dimensione del problema:
Lo studio VIIAS (Metodi per la Valutazione Integrata dell’Impatto Ambientale e Sanitario dell’inquinamento atmosferico), che nel 2015 ha studiato l’incidenza sanitaria dell’inquinamento nel nostro paese, riconduce circa un terzo della mortalità che si verifica in Italia, all’inquinamento atmosferico.
Bruce Aylward, capo della delegazione dell’Organizzazione mondiale della sanità a Wuhan, ha recentemente parlato, a proposito della diffusione del virus in Cina a carico dei più giovani, di cofattori incidenti fra i quali il fumo, al quale l’inquinamento può certamente essere assimilato.
Ecco dunque una possibile spiegazione della ragione della maggiore e più violenta diffusione del virus in zone altamente inquinate, della maggiore suscettibilità a complicanze eventualmente anche in soggetti giovani, ma con stato infiammatorio cronico da patologia ambientale, persino forse della mutagenicità del virus, visto che i tossici ambientali sono potenti agenti mutageni.
Un “bel” male da metropoli, rispetto al quale la politica e la società devono necessariamente interrogarsi.
Secondo i risultati di campionamenti effettuati a Wuhan, il virus si aggregherebbe infatti ai PM (poveri sottili), anche se non è noto per quanto a lungo vi resti attivo, ma va da sé che maggiori sono i PM e maggiore la possibilità che vi siano carriers disponibili per virus della famiglia SARS – CoV-2 . Seguendo questa logica è chiaro che, se non ci fosse inquinamento ambientale, dovrebbe diminuire sicuramente pure la trasmissione virale.
Non a caso, in data 23 febbraio, e non inutilmente si spera, è stato emesso il DDL S. 1337 in materia di Applicazione della valutazione di impatto sanitario ai procedimenti di autorizzazione integrata ambientale che recupera temi che il Prof. Maurizio Grandi a La Torre (Torino), e prima ancora insieme al grande Henri Laborit, nel suo laboratorio storico di Parigi all’ospedale Boucicaut, da decenni indaga in termini di promozione e prevenzione della salute e in termini di cura delle dinamiche eziopatogenetiche ambientali in ambito oncologico, immunologico e neurodegenerativo.
Oggi l’epidemia Covid 19 sembra essere foriera al contempo di crisi ed opportunità: come affermato da Massimiliano Sassoli de’ Bianchi, docente presso il Center Leo Apostel for Interdisciplinary Studies (CLEA) della Vrije Universiteit di Bruxelles: “il coronavirus è un hacker creato dalla natura per mostrare la vulnerabilità del nostro sistema prima che collassi completamente”.
2. La Foresta salverà il mondo
Un rapporto strettissimo lega il Sars-Cov-2 ,severe acute respiratory syndrome, o più semplicemente Corona, e la scomparsa della foresta, l’ecosistema più ricco di biodiversità. Effetto boomerang che ricorda lo “spillover” di David Quammen di tempi non sospetti(2012), tracimazione in cui il patogeno passa da un animale all’altro.
In una recente intervista, Quammen stesso, quasi riedizione di una Cassandra inascoltata che vede avverarsi le sue tristi previsioni, ripete quel che già era leggibile per tutti nel suo testo edito da Adelphi quasi dieci anni fa:
““Siamo tutti parte della natura, dell’ecosistema della Terra. Questo nuovo virus arriva a noi da animali selvatici, in un ecosistema completamente diverso. Ci sono una pletora di animali selvatici, ognuno con un virus singoli. Quando noi mischiamo tutto, deforestiamo, trasportiamo animali selvatici altrove, sconvolgiamo questo escosistema e questi animali, noi diventiamo degli ospiti in alternativa per questi virus. Ci sono 7 miliardi e 700 milioni di persone che possono essere potenziali ospiti interconnessi. In questo modo ce la vogliamo noi, a causa della distruzione di questi ecosistemi e di questi animali selvatici”.
“È stato triste e molto frustrante vedere che tutti i segnali che erano stati dati 10 anni fa quando io ascoltavo gli esperti, sentivo quello che dicevano e ho usato quello che loro sapevano per riuscire a fare le mie previsioni e loro le loro. E’ stato frustrante. Tutti i segnali allarmanti della SARS – e ritorniamo in Cina nel 2003 – e tutti questi messaggi non sono stati ascoltati. Dobbiamo solo sperare che una volta che questa crisi passerà impareremo e saremo più pronti. Le epidemie potrebbero essere di più, visto il danno che facciamo all’ambiente. Dobbiamo essere fortunati. Dobbiamo imparare da questa epidemia, a controllare questa crisi perché tra qualche anno ce ne sarà un’altra”.
“Avremmo dovuto vederla questa cosa arrivare, i nostri leader, i burocrati, gli esperti, avrebbero dovuto prendere delle misure per combatterne lo sviluppo, in modo particolare per riuscire ad identificare chi è infetto il prima possibile. I test sarebbero dovuti essere disponibili in grandi quantità prima. Rilevare prima è importantissimo”
Siamo riusciti a distruggere il bioma di tre quarti della Terra emersa e dei due terzi degli oceani, creando una nuova epoca, incapace di sopravvivere a se stessa: l’Antropocene.
Fu il Nobel per la chimica Paul Crutzen a coniare il termine per indicare l’intervallo di tempo che arriva al presente a partire dalla rivoluzione industriale del 18° sec., ossia da quando è iniziato l’ultimo consistente aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 in atmosfera.
L’Antropocene è caratterizzato dall’impatto dell’uomo sugli ecosistemi che si è progressivamente incrementato, veicolato anche da un aumento di 10 volte della popolazione mondiale, traducendosi in alterazioni sostanziali degli equilibri naturali (scomparsa delle foreste tropicali e riduzione della biodiversità, occupazione di circa il 50% delle terre emerse, sovrasfruttamento delle acque dolci e delle risorse ittiche, uso di azoto fertilizzante agricolo in quantità superiori a quello naturalmente fissato in tutti gli ecosistemi terrestri, immissione in atmosfera di ingenti quantità di gas serra ecc.).
Virus, batteri, archea, protozoi, funghi sono fondamentali per i cicli biogeochimici della biosfera, presupposto per la nascita e crescita della vita sulla terra, da quasi quattro miliardi di anni. Quasi sempre essenziali per la salute umana, occasionalmente patogeni, attraverso il passaggio da animali selvatici all’uomo.
Passaggio determinato dalla distruzione degli ecosistemi delle ultime aree incontaminate e il commercio di specie selvatiche, con contatto troppo stretto e relativa esposizione a maggiori rischi.
Il contagio parrebbe originato nel mercato degli animali di Wuhan, nella provincia cinese di Hubert, forse nella seconda metà dello scorso anno.
Del resto anche nel caso della SARS un veterinario coinvolto a suo tempo nelle ricerche, Jonathan Epstein, dichiarò: «il virus è passato dal pipistrello allo zibetto», e da quest’ultimo all’uomo, in un affollato mercato del Guangdong, dove venivano venduti animali vivi.
L’identikit genetico nel caso di Covid non lascia dubbi, e punta su alcuni chirotteri del genere “Rhinolophus affinis”, specie molto diffusa in Asia, che potrebbe avere costituto il serbatoio del contagio: pipistrelli presenti nella Cina meridionale, con elevata corrispondenza del genoma.
Quando un virus infetta un ospite, il genoma si mescola con quelli dei virus presenti, a spese della cellula infettata, prima di abbandonarla con un corredo genetico diverso.
Ci dev’essere stato poi un animale intermedio, che abbia permesso al coronavirus di fare il salto dal pipistrello all’uomo. Qual è stato il “trampolino di lancio”?
Tra i possibili responsabili, si è pensato prima ad una varietà di serpente, poi, secondo la South China Agricoltural University, gli ospiti più probabili sarebbero i pangolini, mammiferi insettivori dell’Ordine dei Folidoti, con i quali condividono tra l’85,5 e il 92,4% del codice. Illegalmente commercializzati, oltre che per le carni, per le scaglie di cheratina della corazza, utilizzate nella medicina tradizionale.
Le zoonosi di origine selvatica rappresentano la più consistente minaccia per la salute mondiale. Il 75% delle malattie umane derivano da animali, il 60% da quelli selvatici .
Un miliardo di casi di malattie, milioni di morti ogni anno, in crescita senza precedenti.
Big one, peggior nemico per l’umanità .
La distruzione dell’habitat, la creazione di uno artificiale, o semplicemente povero di natura e ad alta densità umana, lo stanno facilitando.
Le foreste abbattute, tropicali e temperate, ne rappresentano la metà, pari ai ghiacciai convertiti all’agricoltura o pascoli; 800.000 dighe impediscono il flusso del 60% dei fiumi del mondo.
UNPRECEDENTED (Intergovernamental Science Policy Platform of Biodiversity Ecosystem Services of ONU, 2019) distruzione: un milione di specie vegetali ed animali a rischio di estinzione, 60% delle popolazioni di vertebrati in quarant’anni(Living Planet Report,2018).
Le foreste pluviali coprono il 31% delle Terre emerse e contengono l’80% della biodiversità. All’inizio della rivoluzione agricola c’erano sei miliardi di alberi, oggi tre miliardi, e sono esponenzialmente cresciute le zoonosi, da specie ignote di virus, batteri, funghi, parassiti… incontrati dall’Uomo nel suo ingresso in terre incontaminate con contatti ravvicinati .
La ricchezza di specie contrasta la diffusione di malattie in diversi modi.
L’effetto di diluizione è il più conosciuto: in un ecosistema con una ricca comunità di potenziali ospiti, un agente patogeno ha minore probabilità di trovare un ospite in cui possa facilmente moltiplicarsi e da cui possa diffondersi, utilizzando un altro animale vettore. In uno scenario ricco di animali diversi è più facile che l’organismo patogeno capiti su una specie non adatta che funzionerà da “trappola ecologica”. In condizioni di bassa biodiversità prevalgono poche specie abbondanti più esposte a contrarre e diffondere infezioni.
L’effetto coevoluzione, spiega come, quando distruggiamo gli habitat, i frammenti di foresta dove i microbi e animali ospitanti subiscono rapida diversificazione, aumentano la probabilità che uno o più possano infettare l’uomo, diffondendosi e creando epidemie.
L’epidemia avviene per causa di modificazioni dell’ambiente provocate dall’uomo: nel 2014, certamente una delle cause di Ebola, è stato un disboscamento massiccio in Guinea, dove la foresta è stata sostituita con coltivazioni arboree industriali. Questo ha provocato la migrazione di pipistrelli, portatori dell’agente patogeno, verso le aree urbane.
Peraltro conosciamo perfettamente gli esiti fallimentari di ogni tentativo di eliminare le popolazioni di specie ospiti o vettrici con insetticidi, quali il DDT di storica memoria, glifosate e dicamba.
La resistenza acquisita di insetti, l’impatto su specie non target, assolutamente innocue per l’uomo e fondamentali per il sistema, obbligano ad un approccio ONE HEALTH, salute comune per il pianeta, multidisciplinare e collaborativo.
Si tratta di un concetto affatto nuovo, fu teoria sostenuta da William Osler e Rudolf Virchow, il Padre della patologia comparata, e ri-enunciata nella Medicina Veterinaria e Sanità Pubblica di Calvin Schwabe nel 1984: one health, la nostra crescente interdipendenza con gli animali e con i prodotti da essi derivati e con l’ambiente in cui viviamo.
Antesignano per eccellenza dell’intuizione sulle relazioni tra i processi di malattia degli animali e degli esseri umani, all’interno dell’ambiente, fu Giovanni Maria Lancisi, medico, archiatra del papa, noto come anatomico nonché epidemiologo, con la sua pietra miliare letteraria – “De Bovilla peste” – pubblicato nel 1715, considerato come la testimonianza più importante di gestione integrata nella storia delle malattie animali. Il suo libro illustra accuratamente le caratteristiche della peste bovina e, soprattutto, sono discusse le misure di controllo applicate e tra le più rilevanti sono state l’introduzione dello stamping out, con istruzioni speciali per l’abbattimento e l’infossamento degli animali colpiti, il divieto di movimentare gli animali colpiti e l’adozione di misure igieniche e politiche adeguate.
Sono altresì descritte le relazioni tra la peste del bestiame e le conseguenze dirette sulla popolazione umana quali la povertà e la fame insieme alle azioni intraprese per fronteggiarle. Lancisi, nel suo capolavoro, ha sottolineato il rapporto esistente tra politica e storia da un lato e l’epidemia dall’altro.
Una breve storia del concetto di One Health ne mostra le radici e la necessità ormai inderogabile di aumentare gli sforzi collaborativi tra differenti discipline che operano a livello locale, nazionale e globale per poter conseguire le condizioni ottimali di salute per la popolazione umana, animale e per l’ambiente.
1821-1902:
Virchow riconosce il legame tra salute umana e animale. Ha coniato il termine “zoonosi” per indicare una malattia infettiva che si trasmette tra esseri umani e animali.
1849-1919:
William Osler, il padre della patologia veterinaria.
1947:
La Divisione di Sanità Pubblica Veterinaria è istituita al Centro per il Controllo e la Prevenzione delle malattie (CDC). Al CDC, con questa divisione, sono stati introdotti negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo i principi della salute pubblica veterinaria.
1927-2006:
Calvin Schwabe conia il termine di “Medicina Unica” e sollecita all’utilizzo di un approccio unificato nella gestione delle zoonosi che utilizzi sia le conoscenze di medicina veterinaria che di medicina umana.
2004:
La Wildlife Conservation Society pubblica i 12 Principi di Manhattan; 12 approcci prioritari per fronteggiare le minacce sanitarie alla salute umana ed animale.
2007:
La American Medical Association approva la risoluzione One Health promuovendo il partenariato tra medicina umana e medicina veterinaria.
L’approccio One Health è raccomandato in caso di risposta ad eventi pandemici. I rappresentanti di 111 paesi e 29 organizzazioni internazionali si sono incontrati a New Delhi in India per la Conferenza ministeriale internazionale sull’influenza aviaria e pandemica.
2008:
FAO, OIE, e WHO collaborano con l’UNICEF, UNSIC e la Banca Mondiale allo sviluppo di un quadro strategico comune in risposta al rischio in continua evoluzione di malattie emergenti e ri-emergenti.
One Health diventa un approccio raccomandato e una realtà politica.
2009:
L’ufficio ad hoc del One Health è istituito al CDC.
L’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) ha istituito il programma per le minacce pandemiche emergenti.
Sono state sviluppate raccomandazioni chiave per il One World, One Health™.
2010:
La dichiarazione di Hanoi, che raccomanda vasta applicazione dell’approccio One Health, è approvata all’unanimità. Un totale di 71 paesi e organismi regionali, insieme ai rappresentanti di organizzazioni internazionali, banche di sviluppo ed altre parti interessate, hanno partecipato alla conferenza ministeriale internazionale sull’influenza aviaria e pandemica in Hanoi, Vietnam.
E’ pubblicato il Concetto Tripartito. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), l’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (OIE), e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si sono uniti per pubblicare la nota tripartitica.
Gli esperti individuano azioni chiare e concrete per spostare il concetto di Salute Unica da una visione puramente teorica verso la sua realizzazione.
Le Nazioni Unite e la Banca Mondiale raccomandano l’adozione dell’approccio One Health.
L’Unione europea ribadisce il suo impegno ad operare sotto l’ombrello del One Health.
2011:
Il primo Congresso Internazionale sull’approccio One Health si svolge a Melbourne, Australia. La prima Conferenza sull’approccio One Health ha luogo in Africa.
Si tiene una riunione ad alto livello tecnico per affrontare i rischi sanitari a livello di interfaccia Ecosistema-Uomo-Animale e si crea una volontà politica per il movimento One Health.
2012:
Il Forum Globale sul Rischio sponsorizza il primo vertice sull’approccio One Health.
2013:
Il secondo Congresso Internazionale sull’approccio One Health si è svolto congiuntamente con la Conferenza di Prince Mahidol.
Nello scenario attuale, nel quale l’impatto umano ha modificato le interazioni tra gli uomini, animali e ambiente, con crescita esponenziale delle popolazioni umane e animali, rapida urbanizzazione, cambiamento nei sistemi di produzione e di allevamento, stretto contatto tra il bestiame e la fauna selvatica, deforestazione, globalizzazione del commercio degli animali e dei prodotti da essi derivati, ci troviamo di fronte a sfide che richiedono necessariamente risposte globali, una di queste è rappresentata dalla diffusione di malattie infettive emergenti (EIDs) a partire dalle interfacce tra gli animali, l’uomo e gli ecosistemi in cui essi vivono.
La salute è un riflesso di come gli individui o popolazioni interagiscono con il mondo, la salute non può più essere considerata separatamente per i diversi regni del cosiddetto “creato”, la salute può essere solo considerata e tutelata come salute di un intero ecosistema, sistema complesso e interdipendente.
La resilienza degli individui nel fronteggiare gli stress o i cambiamenti che si verificano non è concetto dissimile dalla resilienza di un ecosistema, ovvero la capacità di un ecosistema di rispondere ad una perturbazione o a disordini resistendo ai danni provocati e ripristinando le condizioni preesistenti rapidamente.
Oggi la resilienza dell’ecosistema è gravemente compromessa.
Siamo chiamati ad un New deal for nature and people, come inizio di un tempo migliore di ecosystem restoration.